Vi lascio un estratto da “Sotto la pelle” Un thriller avvolto di mistero, dove fede, soprannaturale e tecnologia si intrecciano in una lotta disperata per la sopravvivenza. Un viaggio oscuro dove l’amore potrebbe essere l’unica luce contro le ombre.
Perfetto per chi cerca suspense, emozione e un racconto capace di esplorare i confini tra umano e divino, tra scienza e spiritualità.
Navigava nel Mediterraneo. Il riflesso nello specchio della cabina gli restituiva l’immagine di una figura umana: un corpo rosa e morbido, ricoperto solo in parte da un sottile strato di peli. Lo scanner aveva confermato la compatibilità, ma una sensazione di oppressione persisteva. A pochi passi, i resti del suo vecchio involucro giacevano a terra, accartocciati come un tappeto sgualcito.
Ogni dettaglio di quella nuova pelle gli appariva estraneo, come un abito che non riusciva a sentire davvero suo. La cabina era immersa nel silenzio, disturbato solo dal debole ronzio delle apparecchiature di bordo. Respirò a fondo, cercando di abituarsi. Si avvicinò ancora allo specchio, scrutando quei lineamenti alieni, che pure dovevano essere i suoi. Doveva adattarsi.
Accanto a lui, la giacca nera e i pantaloni riposavano ordinatamente sulla poltrona. Prese il portafoglio, lo aprì e osservò i documenti al suo interno. Tra di essi, piegato con cura, c’era un foglio che gli sembrava più pesante di quanto fosse in realtà:
Data: 8 Marzo 1950
Reverendo Padre Jordan da Silva,
In virtù della sua dedizione, fede e servizio alla Santa Madre Chiesa, e su disposizione dell’Arcivescovo di Malta, S.E. Monsignor Giuseppe Pace, con la presente Le comunico la Sua nomina a Parroco della Chiesa di San Paolo, sita in Rabat, Malta.
Dettagli dell’Incarico:
Parrocchia: Chiesa di San Paolo
Località: Rabat, Malta
Data di Inizio: 15 giugno 1950
Durata dell’Incarico: A tempo indeterminato, soggetto a revisione periodica da parte dell’Arcivescovo. La Sua esperienza e il Suo fervore spirituale saranno preziosi per la comunità di Rabat. Confidiamo che svolgerà il Suo incarico con dedizione, umiltà e amore cristiano. Preghiamo per il Suo successo e per la crescita spirituale della parrocchia sotto la Sua guida.
Con la benedizione di Dio e il sostegno della Vergine Maria, La salutiamo fraternamente.
In fede,
S.E. Monsignor Giuseppe Pace
Arcivescovo di Malta
Curia Arcivescovile di Malta
Valletta, Malta
Indossò gli abiti che trovò nell’armadio. Uscendo dalla cabina, il vento salmastro lo colpì con una certa violenza, costringendolo a fermarsi. Doveva acclimatarsi. Era l’alba, e solo l’equipaggio si aggirava sul ponte. Li osservava, attentamente. Ogni movimento, ogni respiro. Studiava ogni gesto come un puzzle che doveva essere risolto. Non bastava conoscere la loro storia o le loro abitudini. Doveva vivere come loro. Unendosi all’equipaggio, parlava il meno possibile. Ascoltava. Ma una voce stridula lo deconcentrò. “Padre Jordan, anche lei molto mattiniero, vedo.” Si voltò, incrociando lo sguardo di un uomo grassoccio, con baffi folti e arricciati, che indossava una giacca dai colori troppo vivaci per quell’ora del mattino. “Buongiorno a lei.” Le parole gli uscirono lente, calibrate. “Come si trova a bordo? Tutto procede bene? Ieri sera io e mia moglie l’aspettavamo a cena, era la serata danzante, ci siamo molto divertiti. Peccato non sia venuto.” “Purtroppo non mi sentivo bene… ho preferito rimanere in cabina.” Si sentiva ancora rigido nel pronunciare quelle frasi, ma almeno sembravano adeguate. “Sono contento che siate riusciti a divertirvi, lei e sua moglie… Signor…?” “Marlini, Ottavio Marlini.” Il tono dell’uomo era lo stesso di chi crede che basti la propria voce a riempire un vuoto. “Ci siamo presentati ieri, ricorda? Ecco, tenga il mio biglietto da visita, caso mai volesse una barca.” Lesse distrattamente: Azienda il Boot, Vendita barche di varie misure. “Grazie, signor Marlini. Lo terrò in considerazione.” “Spero che a pranzo sarà nostro ospite, Padre Jordan. Sarei curioso di sapere cosa ci va a fare un prelato come lei in un’isola come Malta.” “Sarà un onore.” Rispose con un accenno di sorriso che faticava a mantenere. Marlini continuò a parlare, ma le parole scivolarono su di lui. Le risate dell’uomo risuonavano deboli, mentre lo sguardo di Jordan si perdeva nei movimenti dell’equipaggio. Ogni gesto, ogni sorriso stanco. Doveva imparare, e in fretta. Ogni dettaglio era una lezione. Doveva assimilare tutto, non solo ciò che aveva studiato, ma quelle sfumature che facevano degli umani ciò che erano. Tornò nella cabina. Doveva prepararsi per il pranzo con l’italiano, e non poteva permettersi errori. Aprì la valigia che aveva trovato nell’armadio. Dentro, abiti sacerdotali, libri e un taccuino dalla copertina consumata. Lo sfogliò. Preghiere, riflessioni, appuntamenti, frasi in latino e portoghese. Ogni pagina era un frammento della vita di Jordan da Silva. Ogni parola doveva essere assimilata. Rilesse con attenzione la lettera dell’arcidiocesi. Memorizzò i nomi, le date, le responsabilità. Vicino alla lettera, una mappa piegata dell’isola di Malta. La distese sul tavolo, studiando i dettagli. Rabat. Mdina. Le strade, le chiese. Doveva familiarizzare con la geografia. Trovò anche un biglietto che suggeriva il suo punto di partenza: Lisbona, una settimana prima, con scali a Nizza e Napoli. Ma nulla sembrava rilevante. Non ancora. Tornò a sfogliare i libri. Tra i titoli, uno attirò la sua attenzione: Guida alla cultura maltese. Lo lesse, cercando di immagazzinare il più possibile. Tradizioni religiose, feste locali. I fedeli, le catacombe di San Paolo. Ogni dettaglio poteva rivelarsi utile. Un’altra fotografia catturò la sua attenzione. Jordan insieme a un gruppo di fedeli davanti a una chiesa. Una donna anziana sorrideva. Sul retro, un messaggio: ringraziamenti dalla sua vecchia parrocchia di Lisbona. Tutto sembrava appartenere a un altro mondo. E in effetti, lo era. Si sedette. Scrisse una breve biografia di Jordan da Silva. Nato a Lisbona, ordinato a venticinque anni, trasferito a Malta. Ogni dettaglio doveva essere perfetto. Il suo compito dipendeva dalla capacità di ingannare non solo gli altri, ma anche sé stesso. Dopo un po’, il ronzio della nave e l’odore di cibo proveniente dalla sala da pranzo lo riportarono alla realtà. Era quasi ora di pranzo, e Jordan sapeva che Marlini lo stava aspettando. Fece un respiro profondo, riponendo la mappa e i documenti, e uscì di nuovo dalla cabina. Il ponte era animato, il mare sembrava distendersi all’infinito sotto il sole di mezzogiorno. Il brusio incessante si mischiava al ritmo delle onde, un suono che sembrava svuotare il tempo di ogni significato. Padre Jordan, o ciò che restava della sua identità aliena, tornò a camminare sul ponte. SS Adriatica: un nome scolpito sul fianco di quel gigante di ferro, che tagliava il mare con la freddezza meccanica delle sue eliche. Era una nave di linea, pensata per spostare masse di umanità da un luogo all’altro, lentamente, senza fretta. Il progresso degli aerei stava già rendendo questi viaggi una reliquia, ma la lentezza di quella traversata sembrava appropriata. Il tempo era un’illusione di cui aveva imparato a diffidare. Avevano lasciato Napoli da meno di un giorno. Malta era ancora distante, ma non abbastanza da dargli un senso di tregua. Mancavano forse venti ore di navigazione prima di raggiungere quell’isola, un pugno di terra circondato dal nulla. Il mare, come sempre, appariva indifferente a chi lo attraversava. Gli uomini sul ponte svolgevano il loro lavoro senza parlare, quasi annullati nella routine. Le loro vite, i loro respiri, tutto si confondeva nell’immobilità del viaggio. Si fermò, guardando l’acqua scura, opaca, che non rifletteva più nulla del cielo. Un vuoto profondo e silenzioso che sembrava rispondere al suo stato interiore. Non c’era niente di familiare in ciò che lo circondava, solo un senso di distacco che aumentava con ogni minuto passato in quel corpo umano, stretto e soffocante. Sulla soglia della sala da pranzo, Marlini riaffiorò nella sua visuale, salutando con un cenno esuberante, spazzando via quel momento di riflessione. Sembrava godere nell’occupare gli spazi, nel riempire i silenzi con la sua presenza invadente, quasi grottesca. Procedettero insieme, nonostante il suo istintivo fastidio. La voce di Marlini, carica di un entusiasmo artefatto, ruppe il silenzio: “Domani dovremmo essere a Malta, vero? Meravigliosa quell’isola! Io e mia moglie ci andiamo ogni anno. Per lei, padre, è la prima volta? Non sembra molto entusiasta… Forse non è abituato a questi viaggi?” Jordan rispose con lentezza, calibrando ogni sillaba: “Non è questo…” L’altro annuì senza davvero ascoltare, già immerso nel proprio monologo, nella sua personale apologia di vacanze e ricordi. Troppo concentrato su sé stesso per notare l’ombra negli occhi del prete, o ciò che ne restava. Un’ombra che, di lì a poco, avrebbe dovuto farsi intero inganno. “Vedrà, padre. Malta è un posto antico.” La voce grassa di Marlini gorgogliava tra le labbra, come se masticasse parole più che pronunciarle. “C’è una specie di quiete lì, o almeno così dicono. Ma ci sono certi angoli… come le catacombe di San Paolo. Quelle sì che tolgono il sonno. C’è chi dice che là sotto, tra i morti, ci si possa perdere. Andare oltre la luce, capisce? Sparire come un insetto in un corridoio senza fine.” La sua risata esplose, grassa e stonata, rimbalzando sul ponte della nave e scivolando nei corridoi come un topo spaventato. Padre Jordan non disse nulla. Avrebbe potuto parlare delle catacombe, spingere quella storia oltre, ma non gli interessava. C’erano cose più scure nei suoi pensieri: il vuoto dentro di lui, quel senso opprimente di essere intrappolato in un involucro di carne che non gli apparteneva. Mentre il mare si confondeva con il cielo, come due lastre di metallo saldate assieme, lui restava lì, pietrificato. Mancava poco a Malta, e ogni miglio consumava un frammento della sua finta identità. Era pronto? No. E questa non era una consapevolezza nuova, anzi cresceva e cresceva, come una radice marcia sotto la superficie. Aveva appreso a imitare un corpo umano, a muoversi come un uomo, ma rimaneva un trucco sottile, un vestito cucito male. Ogni sguardo altrui pareva un raggio di sole troppo intenso, capace di bruciargli la pelle. Persino la brezza salmastra, fin troppo reale, sembrava graffiargli i polmoni con i suoi sapori. Quando raggiunse la sala da pranzo, il tintinnio delle stoviglie lo accolse con una sottile ironia. L’odore di cibo cotto, grasso e denso, pendeva nell’aria come un cappio. Doveva sedersi, doveva recitare la sua parte. Non poteva rifiutare. La sala brulicava di chiacchiere e sguardi distratti, ma anche lì c’erano trappole invisibili, occhi fin troppo curiosi. Gli abiti del prete gli pesavano addosso più di una corazza. Si sentiva goffo, smascherato, sebbene nessuno ancora lo avesse denunciato per ciò che era. Marlini lo aveva preceduto.
Sorrideva, gesticolando con movimenti scomposti, come un attore da baraccone. La sua voce riempiva lo spazio, sovrastava il tintinnio dei piatti, si insinuava nelle orecchie come un coltello arrugginito. Il cibo era servito, un piatto di carne e verdure che Jordan si limitò a fissare. Tentò di ricordare ciò che aveva studiato: come si taglia la carne, come si mastica, come si deglutisce. Prese la forchetta: troppo leggera, come se potesse piegarsi tra le dita. Il primo boccone fu una coltellata di sapori sconosciuti. Ferro, grasso, un sentore di vita animale tritata e riorganizzata in forma di pasto. Una dolcezza vegetale, una friabilità del pane che grattava il palato. Non era disgusto. Era… estraneità. Mangiava per dovere, come un automa che emula una funzione biologica. Marlini parlava e parlava, le parole si scontravano tra loro, formavano una nuvola di suoni senza peso. Mare, Malta, feste religiose, mercati locali. Un mosaico di banalità che, tuttavia, all’orecchio di Jordan sembrava quasi ipnotico. L’uomo stava nascondendo qualcosa? O era semplicemente vuoto? Aveva l’impressione che il vero pericolo stesse altrove, in quell’altra figura, la donna seduta accanto a lui. Sara. I suoi occhi seguivano Jordan in silenzio, senza precipitarsi in monologhi sgraziati. Sorseggiava il vino, e in quello sguardo c’era qualcosa di più tagliente. Una domanda muta, un perché non pronunciato. Jordan portò il calice alle labbra, bevve un sorso di vino. Il liquido gli scivolò in gola come un piccolo animale nervoso, inondando la mente di sensazioni nuove. C’era un calore pungente, un retrogusto amaro, qualcosa che bruciava leggermente nel petto. Per gli umani era conforto, una carezza. Per lui, era solo un altro segnale di allarme. Poi la donna parlò, con una voce bassa, quasi musicale, ma tesa come una lama: “Padre Jordan, cosa la porta esattamente a Malta?” Le labbra si curvarono in un sorriso affilato. “Non è una meta comune per un prete di Lisbona, non trova?” Il tempo si fermò, almeno nella mente di Jordan. Aveva previsto questa domanda, sapeva come rispondere. Si ancorò alle informazioni memorizzate: “Sono stato assegnato alla Chiesa di San Paolo a Rabat,” disse con calma misurata, la voce un esercizio di equilibrio. “L’Arcivescovo di Lisbona ha ritenuto che la mia presenza lì potesse essere utile. Una nuova missione.” La donna sorrise, socchiudendo appena gli occhi. “Capisco. Dev’essere stato difficile lasciare la sua terra. Malta è… diversa.” Jordan tenne il viso in una maschera composta, come una statua dal volto scolpito. “Il cambiamento fa parte del nostro cammino. Sono pronto a servire la comunità.” Lei lo fissò più a lungo di quanto fosse normale. C’era una lieve sfumatura ironica nello sguardo, qualcosa che Jordan non poteva ignorare. Un interesse, un puntiglio, o semplicemente curiosità felina. Mentre il marito scarabocchiava un indirizzo su un tovagliolo, lei manteneva quell’attenzione acuminata, come se volesse lacerare il velo della sua identità. “Se mai avrà bisogno, ci contatti,” disse Marlini, con tono sornione. Ma Jordan sentiva gli occhi di lei addosso, percepiva la domanda non detta. Era un segnale d’allarme. Non poteva permettere che quella donna scorgesse qualcosa di sbagliato, un fremito nella voce, un’esitazione nel gesto. Il ronzio della sala da pranzo, lo sferragliare delle posate, le risate di fondo e il vino che scivolava nei bicchieri diventavano un muro di suoni. Jordan continuava a masticare, deglutire, sorseggiare. La maschera doveva restare salda. Avrebbe aspettato, osservato, seguito la corrente come un pesce in un acquario troppo piccolo. Intanto, l’indirizzo scarabocchiato sul tovagliolo stava lì, come un invito, un biglietto per un’altra trappola. Qualcosa di cui si sarebbe dovuto occupare, se le cose si fossero complicate. Magari non ora, né domani. Ma presto. Molto presto. La nave avanzava lenta come un animale stanco, raschiando i fianchi contro l’aria carica di sale. Il vento portava con sé l’odore di alghe morte, e quell’umidità malsana s’infilava nella pelle, come piccoli aghi gelidi conficcati nel derma. Jordan si affacciò sul ponte, guardando la costa farsi più vicina: bastioni di pietra antica, spolpati dal tempo, cicatrici di qualcosa di oscuro che non si limitava alla storia umana. Sembrava quasi che quei muri sussurrassero segreti, invisibili come un veleno nell’aria. Attorno a lui la folla si stringeva, una massa irrequieta pronta a sciamare a terra, ad abbandonare quella scatola di metallo galleggiante per riappropriarsi dell’illusione di libertà. Tra loro, i Marlini si preparavano allo sbarco. L’uomo parlava, parlava sempre, la voce un mulinello di frasi laccate con troppa sicurezza. La donna, invece, era diversa. Si muoveva lenta, come se annusasse l’aria, cercando una traccia, un segno. Jordan lo sentiva: il suo sguardo era una lama sottile che gli sfiorava la nuca. “Padre,” disse Marlini, girandosi con un sorriso oliato, perfettamente costruito come una maschera di cera. “Non dimentichi di venirci a trovare. Sarebbe un vero onore.” Jordan non rispose subito. Il suo sguardo scivolò oltre la spalla dell’uomo, sul mare scuro, dove la luce si spegneva in pozze d’inchiostro. “Farò del mio meglio,” disse infine, con una voce neutra, una nenia priva di vita. Era tutto ciò che aveva da offrire. Poi lei avanzò. Sara. Gli occhi gli rimasero addosso come spilli conficcati nella stoffa. Non parlò subito. Era uno di quei silenzi neri, inquieti, capaci di riempire l’aria più di qualunque parola. Infine, disse: “Ci vediamo presto.” Una frase innocua, certo, ma era il modo in cui la disse. Era il tono, morbido eppure innaturale, che suggeriva qualcosa di non detto. Jordan la guardò appena, un cenno del capo, e la vide allontanarsi con quell’andatura calma, mentre il marito gesticolava con la foga di un attore da fiera di paese. Il loro profilo si stagliava contro la luce del mattino come un dipinto maledetto. Adesso toccava a lui. Scese dalla nave senza rumore, confondendosi tra gli altri viaggiatori. Nessuno lo degnò di più di uno sguardo distratto. Perfetto. Non voleva attenzioni, non ne aveva bisogno. L’aria del porto era un impasto di benzina, sudore e promesse non mantenute. Il mare dietro di lui diventava un’eco lontana, un borbottio confuso. Dritto davanti, oltre le mura, la città si apriva come un ventre pronto a inglobarlo. Un uomo lo attendeva accanto a un’auto nera che sembrava uscita da un incubo di ruggine. La vernice opaca e gli angoli corrosi parlavano di strade polverose e notti di pioggia. Quell’uomo – Jelud, aveva detto di chiamarsi – sorrise con la grazia di un cane randagio e inchinò il capo. “Padre Da Silva? Sono qui per portarla a Rabat.” Jordan annuì piano, senza pronunciare una sola sillaba. Entrò nell’auto come se stesse oltrepassando un confine invisibile. Il motore tossì, poi prese vita in un ringhio sommesso. Attraversarono le strade, costeggiando i bastioni di Valletta, e lui osservò i volti sfilare dietro il vetro, sagome che non significavano nulla. Un mondo umano che sembrava un vecchio film sbiadito, dove tutti recitavano un copione ormai stantio. Nessuno lo avrebbe notato. Nessuno avrebbe sospettato. Eppure, anche mentre si inoltrava in quella terra antica, Jordan sentiva crescere nell’aria un presentimento denso, come muffa nel buio. Qualcosa lo attendeva, qualcosa che non poteva ignorare.
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